domenica 13 febbraio 2011

Dentro il Tevere

Sono sceso negli inferi della mia città, calandomi in una delle sue crepe, nella sua ferita più evidente, una cicatrice liquida che attraversa il suo volto asciutto. Il Tevere la mattina presto, vissuto vicino alle sue acque. Vista da sotto sembra che Roma viva sulle sue acque, tutto il mondo sembra galleggiare sopra un elemento liquido. Ritroviamo là sotto gli antichi filosofi: Talete, Eraclito. Tutto scorre. Nulla è più lo stesso. Mi sembra impossibile che milioni di persone lassù possano ignorare questa corrente che scorre sotto di loro, che attraversa la città nel suo profondo. Acqua che arriverà a mare, evaporerà in nuvole, diventerà pioggia, attraverso argini e canali nutrirà terre o irrigherà campi che seccheranno al sole, che genereranno umidi frutti. Acqua che disseterà uomini ed animali, si trasformerà in sangue che nutrirà i nostri pensieri. Solo il tempo a dividerci, con la sua mano tesa a impedire il nostro destino di unità.

Corro sulla mia bici accanto alla corrente, per qualche istante la mia vita sembra intrecciarsi alla sua, vorrei abbandonare la pista ciclabile ed andare sull'altra parte del fiume, dove ci sono i pescatori che vengono da lontano, dall'Europa dell'Est. Vorrei sorridergli, salutarli, stringergli la mano. Ma mi rendo conto che sarebbe lo stesso. Sarebbe ancora guardare la vita da dietro un vetro, sarebbe come rimanere su questa pista. Adesso mi sembra di vedere la realtà con gli occhi di questo vecchio fiume: da una parte la vita; dall'altra una lunga lingua di asfalto su cui le persone si muovono come figurine di cartone trascinate da un tapis roulant. Da una parte i pesci primordiali nella profondità del fiume, i gabbiani che sfiorano la sua superficie e pochi uomini, tra cui i pescatori: il Tevere solo a loro sembra appartenere. Il fiume è il nostro profondo abbandonato e dimenticato, la parte del nostro spirito tradito agli ideali della Grande Città.

Riemergo da questo mondo infero attraverso uno dei tanti scaloni che costeggiano il fiume. Risalendo dalla sponda del fiume mi volto in basso a guardare le sue acque, consapevole di perderlo per sempre, come Orfeo la sua sposa. Sento il suo lamento lontano ormai confondersi con i suoni dei clacson:

<<Chi ha perduto me, sventurata, e te, Orfeo? Quale grande follia?  Ecco i crudeli fati mi richiamano indietro e il sonno mi chiude gli occhi vacillanti. Ora addio. Vado circondata da un'immensa notte, tendendo a te, ahi non più tua, le deboli mani>>.



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