Descrivere questo quartiere non è semplice, perché non si riesce ad afferrare qualcosa che lo caratterizzi nel concreto. Cercherò allora di raccontarlo attraverso la mia storia; la storia di un bambino che vi ha trascorso parte della sua infanzia. Come tutte le storie, anch'essa una storia di amore e sofferenza. La sofferenza come temporanea mancanza di amore. Non soffriremo dunque senza amore? Ma si può pensare di rinunciare a ciò che impreziosisce di più le nostre vite? Per mia nonna, i suoi due nipotini, io e mio fratello A.
Abitava sola a Piazza Balsamo Crivelli, al IV piano di una grande palazzina. La casa, piuttosto piccola, era composta dalla camera da letto, un soggiorno-cucina, un bagno. In camera c'era un grande letto matrimoniale in cui in qualche pomeriggio dormivamo io e mio fratello, mentre lei si coricava in un piccolo lettuccio accanto a noi, più vicino alla finestra. E mentre noi dormivamo, lei stesa in quel letto che appena la conteneva, era girata verso di noi, per guardarci, accudirci, direi per ammirare in silenzio quelle due piccole gioie che una vita piuttosto amara le aveva alla fine regalato.
All'epoca non me ne rendevo certo conto, ma ora capisco bene quanta gioia noi potessimo dare a lei, quanto fossimo la dimostrazione in carne ed ossa che tutte le sofferenze che aveva dovuto sopportare, le difficoltà a cui aveva dovuto resistere, le scelte difficili che aveva dovuto compiere non erano state inutili. E lei, così lontana dalla sua terra di origine, senza un padre ed una madre fin da piccola, senza mai aver avuto accanto il padre del suo unico figlio in una collocazione geografica, storica e sociale che tanto più lo esigeva, ragazza madre in un epoca che non conosceva questo termine, lei si trovava ora in questa stanza a guardare queste sue due piccole creature. Non aveva più bisogno di qualcuno che le certificasse che la sua vita era stata un successo, le prove erano lì davanti a lei; e nessuno in ogni caso poteva essere all'altezza di quel giudizio. Poiché nessuno intorno a lei era mai stato all'altezza di un giudizio, mentre noi ora eravamo là. Perché se persino la verità più evidente può essere negata, può esserci tolta senza diritto di replica, nessuno poteva negare l'esistenza del respiro rassicurante di quei due bambini nella sua stanza. Mentre dormivamo, filtrava attraverso la serranda abbassata quel sole intenso che la città rifletteva sulla facciata del nostro appartamento. Quella meravigliosa città che aveva accolto questa supplice, questa fuggitiva.
L'ho sognata non molto tempo fa: io che le dicevo che era tanto tempo che non dormivo così bene. Io che le dicevo che in quel letto si dormiva proprio bene, che in quella casa si dormiva proprio bene. E lei che si mostrava d'accordo ed affacciandosi alla finestra che dava sul condominio di Casal Bruciato, su quei palazzi pieni di finestre con le serrande abbassate tutte uguali, lei che mi diceva che era vero che in questa casa lei ci stava proprio bene; che in questa città lei si sentiva proprio bene. Si sentiva proprio come al suo paese di nascita: Questo lei dice nel sogno e mai avrebbe detto nella realtà, perché il suo paese, la sua terra l'avevano in parte rinnegata, tradita. Ma il sogno è sincero, perché ci racconta come mia nonna aveva ricambiato l'amore con cui Roma l'aveva accolta elevandola a sua patria. Una figlia che riconosce la sua madre adottiva come unica madre; e sempre continua nascostamente a soffrire per essere stata abbandonata dalla prima. Un Enea che con il suo bimbo in collo era approdata in una nuova terra per mettervi radici, io l'ultimo frutto di questo lungo viaggio. E l'amore con Roma era l'unico amore possibile per una tale donna, un amore grande ma nascosto, duro come la faccia dell'uomo che pur aveva amato.
Ed ogni giorno ci raccontava di come questo quartiere l'aveva accolta, il fruttivendolo al mercato, il macellaio e persino il dentista, tutti nei suoi racconti avevano un occhio di riguardo per lei.
Ed ogni tanto ci raccontava di quando era da poco giunta a Roma e che per vivere era a servizio nella casa di un Generale (ma sarà stato veramente tale?), nel quartiere Prati e di come lui quando poteva le donava sacchi di farina , pasta o qualche altro bene, sempre preoccupato di come avrebbe potuto mia nonna portare a casa quel fardello. E lei, la immagino con un sorriso pieno di riconoscenza ed orgogliosa ironia, si caricava con disinvoltura quei pesanti sacchi sopra la testa, alla maniera contadina, attraversando mezza Roma a piedi. Una città finalmente piena di donne e di uomini che non avevano la frettolosa necessità di giudicarla; una città in cui poter camminare a testa alta , come aveva sempre fatto si, ma senza dover più sopportare altri pesi oltre quello che già gravava sulla sua testa.
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